Di fuoco e di mare

isolotto

Fontane di fuoco in mezzo al mare. Direttamente dal ventre della terra, da cui risaliva densa e copiosa la lava, disponendosi strato su strato e solidificando in fretta. Non impiegarono molto tempo, terra e fuoco, con il concorso di acqua e aria, a comporre quella nuova collina sommersa, che la geologia avrebbe poi definito «duomo lavico». Una sequenza lunga di eventi modellò l’isolotto donandogli la caratteristica forma tondeggiante che, rispetto all’altro duomo lavico del Castello Aragonese, lo rende ancor oggi riconoscibile e inconfondibile davanti alla costa meridionale dell’isola grande. Delle cui ben più complesse vicissitudini e trasformazioni, geologiche e storiche, si è trovato ad essere testimone e custode in decine di migliaia di anni. È solo una stretta striscia di sabbia che unisce l’isolotto al gigante dominato dalla vetta verde dell’Epomeo. L’Insula Maior su quel versante particolarmente esposto e vulnerabile presenta uno scenario composito di alture verdeggianti, pareti rocciose alte e scoscese, promontori e lidi sabbiosi.

Proprio la prossimità di questi elementi attirò l’attenzione dei marinai di Pithekoussai, che ben conoscevano il mare intorno all’isola su cui da poco (prima metà dell’VIII secolo a.C.) si erano insediati: i promontori erano preziose vedette naturali, mentre le marine favorivano l’approdo delle imbarcazioni. Con il vantaggio che tutt’intorno vi erano terreni utili per l’agricoltura e per fondare nuovi villaggi.
DA COLAMARINA OCCHIO A ETRUSCHI E FENICI
 Quel tratto di costa che iniziava da Punta Chiarito, con una «fattoria» fulcro di un possedimento agricolo in posizione strategica per le attività marinaresche e piratesche dei proprietari, offriva vari luoghi favorevoli a piccoli insediamenti di agricoltori, dediti alla coltivazione del grano e della vite, che proprio i greci avevano introdotto sull’isola. C’era un vallone ben protetto, l’attuale Cavagrado, e lì si stabilirono nell’ultimo decennio dellVIII secolo. La marina era perfetta per le navi che garantivano i collegamenti con Pithekoussai e vi era anche una sorgente di acqua termale. E i terreni circostanti erano fertili e ben esposti. I reperti di ceramica rinvenuti dagli archeologi raccontano una quotidianità protrattasi fino al VI secolo a.C. Mentre frammenti di tegole dipinte richiamano la presenza di un tempio. Un po’ più in alto, anche il pianoro di Rufano fu abitato dagli agricoltori greci. Che presto occuparono e misero a coltura anche la collinetta di Colamarina, affacciata sull’isolotto proteso nel mare. Da quel punto si dominavano agevolmente le baie ai lati della striscia sabbiosa e si poteva prontamente individuare e segnalare il passaggio, sulla rotta battuta da Etruschi e Fenici, di navi potenzialmente ostili o anche solo concorrenti della flotta commerciale di Pithekoussai. Terra fertile, ma bizzosa. Fu per quello che i greci la abbandonarono nella seconda metà del VI secolo. E non vi furono ritorni, a lungo. Ci vollero cinquecento anni perché in età romana nascesse un nuovo villaggio a Colamarina e vi riprendesse anche una florida attività agricola.
MONACI SULL’ISTMO: GUERRA, TERRA E PACE
Come i terrazzamenti avevano modellato le balze costiere dell’isola grande fin dall’arrivo dei pithecusani, nel Medio Evo accadde altrettanto lungo i fianchi dell’isolotto, che proprio allora cominciò a chiamarsi Sant’Angelo. Merito dei monaci di San Benedetto, che sulla sommità della cupola di lava avevano edificato, prima dell’anno mille, un monastero con il titolo di Sancti Angeli alloquio, dove alla preghiera si accompagnava il lavoro della terra. Nell’oasi verde in mezzo al mare si sfruttava al meglio la particolare esposizione dei vari versanti. Il sole del sud era preferito per la coltivazione del grano e dei legumi, mentre di fronte all’isola grande crescevano rigogliosi vigneti, oliveti e frutteti per l’autosufficienza del monastero. Divenuto centro del culto in onore di San Michele Arcangelo, che proprio i Benedettini avevano introdotto sull’isola, quando era già molto diffuso nell’Italia meridionale. E la festa annuale del santo guerriero richiamava ogni anno sull’isolotto, all’inizio dell’autunno, i pescatori del piccolo villaggio che cresceva dall’altra parte della striscia sabbiosa, a cui si aggiungevano per l’occasione anche gli abitanti dei borghi disseminati ai piedi dell’Epomeo.
 LA TORRE IN MACERIE
 La piccola abbazia sull’isolotto rimase aperta al culto anche quando i Benedettini lasciarono l’isola. E non fu toccata dalla nuova fabbrica avviata nelle sue vicinanze durante il periodo aragonese: una torre, parte integrante del sistema difensivo che si andava realizzando lungo tutto il perimetro dell’isola, minacciata dai pirati barbareschi. Quel promontorio era in posizione strategica per avvistare le navi ostili e lanciare l’allarme con segnalazioni luminose alla Torre di Guardia sull’Epomeo e alla torre di Panza. A pianta rettangolare, la struttura era accessibile grazie ad un ponte levatoio di legno. E al secondo piano erano collocate le aperture per scrutare il mare e le armi per la difesa. Sotto Gioacchino Murat re di Napoli, alla fine del 1808, la flotta anglo-borbonica cominciò a cannoneggiare senza sosta i villaggi della costa meridionale dell’isola. La risposta arrivò dalla Torre di Sant’Angelo, munita di pezzi pesanti. Dopo ore di combattimento, un colpo dal mare raggiunse la polveriera mandando a fuoco l’intera fortezza. E l’antica chiesetta fu ridotta anch’essa a un cumulo di macerie fumanti. Fu l’ultimo capitolo della storia dell’isolotto, che venne completamente abbandonato. 
IL VINO CON… LA VALIGIA
Cereali e legumi verso il mare, viti, ulivi e fichi sul lato interno, l’isolotto era rimasto una risorsa per il borgo raggrumato intorno alla spiaggia, in fondo alla lingua di sabbia. Piccole case, incastonate nella roccia, per le famiglie di pescatori/agricoltori. Gli abitanti di Sant’Angelo, uomini e donne, lavoravano sodo, dalla mattina alla sera in ogni stagione. A mare, dedicandosi alla pesca, e a terra, nei terreni della Torre, come avevano preso a chiamare l’isolotto, o in quelli alle spalle del paese, risalendo la collina, collegata dai sentieri ai casali più vicini. Grazie alla pesca fruttuosa, il cibo quotidiano era assicurato, con l’integrazione dei prodotti della terra. Questi, poi, di ottima qualità, potevano essere venduti nel resto dell’isola e al di là del mare. A Napoli, da dove si tornava con altri prodotti necessari introvabili in paese e qualche soldo. Tra tutte, la produzione più preziosa era il vino. Al momento convenuto, una volta all’anno, i vignaioli scendevano nel borgo con i muli carichi di vino da esportare. Ai piedi dell’isolotto ciascuno scaricava in enormi vasche, in cui era mescolato prima di riempire le botti che venivano poi buttate a mare, da dove venivano issate a bordo dei velieri. Quel vino della comunità partiva dal piccolo approdo santangiolese verso la Toscana. Giorni e giorni di viaggio per raggiungere Piombino e scaricare le botti di generoso vino rosso santangiolese, molto ricercato nella terra del Chianti. Per essere commercializzato, non di rado, proprio come tale… Perduta l’abbazia sull’isolotto, nel 1850 fu avviata la costruzione di una nuova chiesa nella parte alta del borgo di Sant’Angelo, dov’era già una cappellina dei Calosirto, la famiglia di San Giovan Giuseppe della Croce. Nella nuova chiesa, divenuta parrocchia nel 1905, fu trasferita la statua di San Michele Arcangelo a cui fu intitolata. Da lì, ogni anno, l’immagine venerata del Santo guerriero scende di nuovo al mare per i suggestivi festeggiamenti corali, che coinvolgono l’intero paese e la Torre. Così, la notte del 29 settembre il mare s’illumina a giorno fino ai Maronti. Bagliori di fuochi d’artificio all’ombra dell’isolotto che il fuoco ha creato.

Di Isabella Marino

 

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