Daniele Papuli e la Grande Madre di carta

papuli

Per un attimo avverto l’odore dolciastro del magma mescolato all’aspro delle felci preistoriche, arse chissà quando. È come se, all’interno della Chiesa dell’Immacolata questo sentore ancestrale lo portasse con sé uno scherzo del vento di levante che, sul maniero, gira da destra a sinistra. È una stranezza dei sensi, uno straniamento, una ventata irrazionale. Sarà forse colpa della Memetica? Un mix di memoria storica, identità e genetica deformabile dalla tradizione? Imbocco un tunnel temporale che mi conduce, a ritroso, fino alle origini infuocate dell’isola minore, il vulcano che – sono trascorsi decine di millenni - offre salde fondamenta alla città fortificata, al Castello Aragonese.
Questo effetto sensationnel ha un’altra leva emotiva: è preannunciato nell’esperienza in cui ci avvolge Daniele Papuli, che ha il meridione mediterraneo e mediorientale inscritto nel cognome. Con la sua ultima opera ludicamente complessa ci rende protagonisti di meraviglia, soddisfazione, appagamento.

Il titolo è molto efficace: «Ule. Carte visionarie», con una didascalia - scultografie, installazioni, video - che conferma la rotta internazionale dell’artista, consapevole e sicura, stilisticamente inconfondibile. Agendo sulla carta, materia elettiva da oltre venti anni, ha affinato una ricerca che offre risultati sempre più esaltanti. Ha il suo centro di gravità a Milano, Europa; ed è concettualmente potente, fin dal primo grado di percezione della sostanza dei «pezzi», fatti appunto di voluttuose trasformazioni cartacee, sempre in bilico tra metafisica e sensualità.
Papuli, ci induce in tentazione per farci lanciare senza paracadute da un puntino lassù, etereo e sperduto nell’immaginario, per poi appoggiarci sul suolo che ci appartiene, grazie a questo progetto che poteva completarsi solo qui, ispirato alla geomorfologia di un luogo speciale e universale di cui gli Amici di Gabriele Mattera sono i custodi fenomenali, felici di riabbracciare una persona affabile, oltreché un artefice meticoloso e affascinante, che torna dopo la personale datata 2011.
Così un tappeto di grandi e sottilissime scaglie nere è una colata lavica, indubbiamente abilitata a evocare il parto del cratere antichissimo che è al di sotto, o l’epopea eruttiva del 1301 che lacerò i fianchi dell’isola maggiore. Su di essa spuntano le «forme arcaiche affioranti, “Cuti”, che nel dialetto salentino significa di concrezione dura». Qui e ora diventano massi erratici, tra riflessi a specchio e cromatismi succulenti e ipnotici.
Ma sono anche mega tizzoni ardenti, oppure relitti di tronchi spezzati di una foresta pietrificata e vitalissima, costruita con i fogli avvolti su se stessi in un gioco etimologico di volumi che girano e chiacchierano con lo spazio intorno. E perciò sono volumina, ovvero papiri (rotoli) che noi riempiamo di narrazione e, dunque, libri ante litteram. Del resto i volumina cordis sono i rivolgimenti del pensiero. Sono sezionati, capitozzati e baluginano di colori. E ammiccano ai cerchi concentrici del legno, a una prassi di dendrologia, di conta degli anni arborei e di cunto contemporaneo. La cellulosa si rifà il verso, fa una giravolta e torna alle radici. Si muove e ci fa muovere. Ci facciamo un girotondo? E poi, tutti giù per terra! Ovviamente.
Intanto occorre srotolare i passi, circumnavigare i detriti lavici, i dossi e le contorsioni, gli scogli di fuoco non spento completamente. Vorrei essere un drone. Ci vorrebbe la volucritas, il volo rapido. Per sorvolare la mostra che esprime più ecosistemi creativi: l’uno con l’altro si scambiano energia, rafforzandosi e sfuggendo all’entropia della distrazione, per contagiarci con divertimento.
Come l’ipotetica brezza iniziale, si scopre che a girare da destra verso sinistra, seguendo l’itinerario naturale della nostra abitudine a leggere un testo (è così che si muovono gli occhi), c’è un video. È proiettato sullo schermo-quinta messo a confine del gruppo di installazioni: venticinque minuti in loop d’immagini realizzate su bobine di carta leggera che hanno assorbito flussi mutanti d’inchiostratura. Sono lunghe duecentottantacinque metri, e proiettate come la pellicola di un film. Scorrono selezionate in sette, ulteriori titoli: ule, respiri, mondi, voli, viaggi, evanescenti, distanti. Di fatto, è un susseguirsi di paesaggi virtuali, fantastici, con un interminabile svolgimento di sembianze diluite, tra chiome spugnose e umbratili, aloni, sbavature, colpi di seppia, annuvolamenti onirici, ibridi.
E si svelano nuovi suggerimenti, a partire dalla parole-chiave «Ula» che, ancora in salentino, lingua magica, «vuol dire voglia, desiderio insoddisfatto che riappare come macchia sulla pelle, ma anche vola, al singolare, come auspicio di leggerezza».
La macchia si forma, appare ed esiste sulla pelle che, quindi, diventa carta velina, la prima carta. E bisogna interpretarla, tradurre il segno in significati. È involucro primigenio di un corpo femminile da leggere, e al quale si può sottrarre peso, con le parole, la musica.
Di fatto Papuli, richiamando il vortice dei desideri, volatili per statuto, delle future partorienti, contribuisce a definire una nuova mitologia della Grande Madre, fatta di carta ma fortissima, con lo sguardo rivolto all’insù, in grado di vincere la gravidanza e la gravità. E la connette al suo patrimonio interiore, al Sud puro e un po’ tribale che abitiamo.
Papuli spiega che «i suoni che accompagnano la visione sono registrazioni eseguite con ampi fogli di carta, lamelle, strisce, veline o di grammatura più pesante, stropicciate, accartocciate, strappate». Si combinano macchie e vibrazioni. «Le mani dell’artista affondano nella materia e ne scova anche le sonorità; quelle di Gianni De Rosa pizzicano, saltellano e scorrono libere sulle corde tese della sua viola e quelle di Renato Ferrero, pazienti, impaginano immagini, suoni, silenzi».
Il loop scorre lento in cerca di una trama che tocca a noi comporre. La melodia scava e si fa scovare in un ritmo dettato dai timbri d’inchiostro che delineano l’ampiezza delle note, delle onde sonore. Ed è in questo momento che emerge un’evoluzione potenziale. Un’altra voglia, nu vulìo, uno stratagemma. E se accelerasse l’intensità della composizione? Tonfi e stridori, pizziche e battiti ci darebbero l’eco di una Taranta in nuce. La liberiamo? Ci lasciamo travolgere?

 

Di Ciro Cenatiempo

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