Forio e il Palazzo di Bolivar

portone-bolivarHo sempre pensato che i portoni chiusi dei palazzi antichi nel centro storico di Forio, se da un lato mi hanno dato il senso del limite e dell’invalicabilità, dall’altro mi hanno fatto fantasticare, stimolando pensieri e immaginazione.
Da piccola percepivo che le persone del posto si sentivano parte integrante di quei palazzi, gli appartenevano per tradizione, per cultura, per la storia che quelle pietre ancora tutt’ora raccontano, per i personaggi che vi avevano vissuto e avevano lasciato una loro impronta.

Molti non avevano mai varcato quei massicci portoni dietro ai quali c’era tutto un mondo a parte. La gente commentava e viveva dal di fuori gli eventi che accadevano all’interno di quei piccoli regni, più che altro invalicabili per differenza di casta e di cultura.
Sentivo dire: “quello è il “Palazzo Pezzillo”, lassù c’è la Torre dell’avvocato Luigino Morgera, di là c’è il Palazzo di Don Luigi Patalano”.
Il mastodontico portone di quest’ultimo palazzo lo ricordo in modo particolare perché si apriva tutte le mattine, quasi alla stessa ora.
Il personaggio che lo calcava era scenografico non solo nell’aspetto, ma anche per la sua particolare andatura.
Si chiamava Don Franco, fratello maggiore di Bolivar, figlio di Don Luigino. Era senile, aveva una lunghissima barba bianca e portava un largo e lungo cappotto rattoppato e consumato.
Camminava, se così si può dire, con le stampelle e i passi ed i suoi movimenti erano così lenti, che impiegava l’intera mattinata per arrivare fino al Raggio Verde e tornare di nuovo a casa. Per chi stava ad osservarlo, sembrava che quel pover’uomo doveva espiare in questa vita chissà quale colpa o quale penitenza.
La sua passeggiata sembrava un calvario, ma egli era sereno nello sguardo, la sua voce era lenta e pacata.
Sembrava un uomo antichissimo, uno di quelli che stavano lì da secoli e sarebbe vissuto ancora per altrettante centinaia d’anni.
Però poteva anche dare l’idea di quei personaggi che compaiono all’improvviso, dopo una magia, pronti a scomparire appena l’incantesimo finisce.
A me dava l’impressione di una scultura antica, scolpita da un artista estroso, una di quelle che si animano improvvisamente, perché stanche della loro immobilità, ma che devono imparare a muovere i primi passi.
Quando Don Franco, dopo la sua passeggiata quotidiana, chiudeva dietro di se il grosso portone, pareva essere inghiottito dall’androne della casa, buio e profondo.
Nel periodo di Carnevale di qualche anno fa, passeggiando per Forio, vidi le due “ante” spalancate e l’androne leggermente illuminato. Entrai dunque e cominciai a curiosare, seppure con la poca luce, dirigendomi verso destra, proprio là dove l’artista Bolivar ha vissuto per trent’anni.
Ho ricordato allora i suoi tanti quadri accatastati in ogni angolo, le pile di giornali e riviste messe alla rinfusa, le bottiglie ed i bicchieri su un tavolo sgangherato, dove consumava i suoi pasti, gli sgabelli dove tanti anni fa, giovanissima, mi ero seduta a conversare con lui, dopo aver posato per l’ennesimo ritratto.
In fondo all’androne, vicino al cancello di ferro che comunica con il giardino ormai in stato di abbandono, mi ritrovai ad immaginare come se tutto fosse rimasto come allora, i barattoli di pittura sparsi d’ogni intorno, cartoni, tele, martelli, chiodi, colla. In quello spazio, soprattutto nelle giornate ricche di sole e di luce, Bolivar con fare frenetico, apparentemente assente e distante con lo sguardo e con la mente dalla persona che davanti a lui posava, dava vita alla sua arte.
Non è cambiato molto da allora, mancano solo i personaggi, intanto lo stato di incuria e fatiscenza avanza.
Gli intonaci stanno cadendo a pezzi, le porte sono marcite, fili volanti della corrente elettrica deturpano l’estetica. C’è desolazione e angoscia in quel palazzo che un tempo aveva avuto un suo splendore particolare.
Tocca ora sperare che, se verrà risistemato, verrà rispettato il restauro tenendo conto dall’architettura originale ed evitando di perdere così, la sua identità primaria.
Seppi poi che, alcuni anni fa, quel bene era stato messo in vendita e, in quella circostanza, il comune di Forio perse un’occasione unica rifiutando di fare richiesta d’acquisto.
Nel centro di Forio, a parte il “Torrione”, emarginato e per niente valorizzato, nonostante sia ubicato a pochi passi dal corso principale, l’acquisto del “Palazzo Patalano” si sarebbe rivelato come un’occasione unica per restaurare l’antica architettura e renderlo fruibile all’intera collettività. Creando nei molti locali del piano terra e del piano superiore, di varie dimensioni, delle sale di lettura, sale da te, sale per ascoltare musica, sale espositive per sculture, pitture, ceramica, si sarebbe potuto dar lustro alla storicità del luogo e perpetuare la cultura e le tradizioni.
L’androne sarebbe stato il posto ideale per organizzare mostre, convegni, incontri, una “sala museo” per alcune opere di Bolivar.
Quel “complesso”, aperto al pubblico, avrebbe certamente arricchito il centro storico di Forio, il più raccolto, il più armonioso e vasto dell’isola.
Pur essendo realistica, mi piace ancora sognare ed immaginare, come quando ero piccola, che al di la di quelle spesse mura, ci siano ancora l’avvocato Morgera e Don Luigi Patalano, seduti dietro alla loro scrivania, con le scaffalature ricche di libri antichi dal profumo di muffa.
Con la luce fioca del lume a petrolio essi, ormai vecchi ed acciaccati, ma con la mente lucida e fervida, sarebbero in attesa di esser chiamati dalla governante per andare a cena e sedere a capo di una lunga tavola, intorno alla quale ci sarebbero ancora i figli, i nipoti, i pronipoti.
I massicci portoni ora sono chiusi sul corso, dove le persone si muovono indaffarate e con i problemi di sempre.
Mi piace pensare a Don Franco mentre, dopo la sua passeggiata, entrava in quell’androne buio e pareva essere inghiottito nell’immenso ventre della Terra.


*Da qualche anno l’androne del Palazzo di Bolivar è stato tutto quanto restaurato.

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