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La tonnara e l'ultimo rais del Tirreno

tonnara

di Graziano Petrucci

Il suo motto, se fosse nell’odierno mercato globalizzato, sarebbe stato “tonno, subito”. Lo chiamavano Minichiello, forse perché basso di statura. “Tonnava”, è il caso di dirlo, a Lacco Ameno, da marzo a settembre e si appoggiava a casa della nipote Carmela. Ebbe sette figli, quattro maschi e tre femmine. Veniva da Procida. Anche se oggi lo compriamo in scatola, Domenico Intartaglia andava a caccia di tonni e pesce azzurro. Era il Rais della tonnara di Lacco Ameno. Anche detto Arraise, gestiva il sistema di pesca che esisteva dal 1743 e durò fino al 1959, anno in cui Domenico festeggiò i suoi 89 anni. Fu uno degli ultimi impianti del Tirreno, e lui l’ultimo Rais del Golfo di Napoli. La tonnara venne istituita grazie ai privilegi concessi dagli Aragonesi nel 1501, confermati a Bologna nel 1533. Vennero accordati all’isola d’Ischia “i lidi, le spiagge, i promontori e mezzo miglio di mare intorno al suo territorio”.

Della proprietà potevano disporre le autorità amministrative dell’isola: “o a favore degli abitanti o darla in concessione per un giusto utile”. Un terzo del pescato fresco, raccolto nel mare in concessione, doveva essere venduto, senza dazi, agli abitanti nell’isola. Nel 1743 i Casali di Lacco Ameno decisero di fittare la parte antistante il mare di fronte al comune per far installare una delle tonnare più famose del nostro mare. Nel 1889 una lite, tra la “città” di Ischia e gli altri comuni, mise in discussione i privilegi. Fu risolta dal Tribunale di Napoli a favore del conduttore della tonnaia, al quale fu concesso di continuare la pesca. Gran parte della popolazione locale veniva impiegata nel sistema economico generato dall’impianto. “I lavori di raddobbo dei legni, la confezione delle reti, e le selezioni per completare la ciurma addetta alla pesca”, erano i volani economici dell’epoca.
LA NATURA CHE RIPAGA
«È arrivato l’Arraise, è arrivato Minichiello», lo descrive bene il professore Giuseppe Silvestri, nel libro La tonnara di Lacco Ameno e altri mestieri di pesca nell’isola d’Ischia (Imagaenaria, 2003). La voce dello sbarco di Domenico sull’isola si diffondeva veloce. Dopo il suo arrivo le barche si svegliavano dal lungo sonno invernale per affondare a piene mani nell’allegria dei pescatori per il lavoro rinato, generatore dell’idea fantastica e poetica che, di lì a poco, la Natura li avrebbe ripagati. Minichiello sovraintendeva le attività che avrebbero portato alla costruzione della tonnara. Si sarebbe stesa come un panno uniforme sulla superficie del mare. Dal barcone il Rais gestiva e visionava le operazioni che prendevano forma dal mese di aprile. Non sapeva leggere. Per firmare i contratti con l’appaltatore, Giovanni, uno dei suoi figli, lo coadiuvava nel lavoro. Sapeva però molto del moto delle correnti e dei pesci sin dall’età di dodici anni. Un vecchio pescatore gli aveva trasmesso, nel modo tradizionale, da bocca a orecchio, tutti i segreti delle correnti intorno a Procida e Vivara, a Ischia come dell’intero Golfo di Napoli. Apprese la conoscenza dei fondali, della profondità del mare e del percorso che avrebbe seguito la lunga scia della natura scomposta nella fauna marina. Informazioni che gli sarebbero servite per imparare il mestiere e diventare “comandante” del Caparaise. Era suo l’onere di stazionare sulla superficie del mare, sopra la camera della morte della tonnaia. L’impianto si distendeva per 500 metri, nelle acque di fronte a Lacco Ameno, in direzione nord est dalla Punta di Monte di Vico. Il Caparaise “era tenuto da cavi che partivano da prua e poppa, legati a grosse ancore a circa ottanta metri di profondità”. Dalla murata di Levante, invece, fino all’altro barcone, lo Scieve, partiva la rete principale. L’inizio del pedale era situato a 200 mt dalla terra, nel mare. Più lontano su l’Abbazia, l’altro barcone, era posta la luce di segnalazione.

UNA GRANDE ABBUFFATA DI PESCI

Fermo, immobile, come un generale in attesa del momento propizio per sferrare l’attacco, in piedi sul suo battello, quando avvistava i branchi di pesci passarvi all’interno, si animava per uscire dal silenzio meditativo. Parlava coi tonnarotti anche con lo sguardo ma quando i pesci venivano fuori dal grembo del mare era un’altra cosa. Aizate, ordinava il Masonico, chiamato così per i suoi lunghi silenzi interrotti solo quando era necessario. Dopo l’ordine i trenta pescatori, allineati e coperti, capi famiglia dei rioni Mezzavia e Ortola, uscivano dall’attesa portando in superficie la rete, chiudevano la porta della tonnara e incominciava la mattanza. Tonni, tonni, e ancora tonni, e poi sgombri, pescispada, palamiti e pesciluna oscuravano il mare per prender forma in un enorme essere marino e infernale dibattendosi ed evitare la crocifissione. Nulla però sarebbe scampato al sistema che in poco tempo era nuovamente pronto ad accogliere altre sacche di bottino, anche la notte. Vope, saraghi, occhiate, s’incamminavano nella rete per restarvi prigionieri, condotti dalla luce di una Luna estiva pronta ad augurare l’intima vittoria dell’uomo a garanzia della sua sopravvivenza. Sapeva ascoltare il mare, Domenico. Sin da piccolo, dalla riva sulla spiaggia di Ciraccio a Procida, lo spiava, lo scrutava curioso, lo studiava osservandone i moti ondosi, come giravano i venti o fluttuavano i branchi di pesci. Fu accolto dal vecchio Rais della tonnara dell’isola. Ne assorbì le parole, i comportamenti, gli animi e i comandi. Ogni anno seguiva i pescatori che preparavano il sistema di cavi, di reti e galleggianti di sughero o vetro, sulla spiaggia prima di diventare, una volta immerso in acqua, l’impianto per la pesca. Da loro imparò i movimenti durante le operazioni di costruzione del sistema e con il suo enorme bagaglio di cultura e conoscenza del mare, ormai pronto, sin da giovane assunse la gestione dell’impianto a Lacco Ameno, di proprietà del commendatore De Luca.


 RITUALI , DEVOZIONI E RICETTE

Intorno alla tonnara ruotavano riti, superstizioni e devozioni degli uomini del mare. Era un fervido religioso, Domenico. I tonnarotti al suo servizio erano quasi obbligati, ogni domenica, a interrompere i lavori per sbarcare e partecipare alla messa. O presso la chiesa di Santa Maria delle Grazie o nella Basilica di Santa Restituta. «Per devozione a Santa Restituta, i pescatori donavano un tonno», dice il professore Silvestri. Tra i suoi santi protettori c’era anche San Michele di Procida. Il lavoro quotidiano del Rais era scandito dalla recita del Rosario e dalle preghiere che ne potessero favorire la pesca. «La maggior parte del pescato era costituito da sgombri e palamiti, e pesci luna», racconta Giuseppe Silvestri. «Gli sgombri venivano cucinati con le patate, i palamiti invece, pieni di spine, dovevano esser puliti per forza dai pescatori che sapevano come eseguire l’operazione. Il pesce veniva poi cucinato al sugo o con pomodori». Alla fine della stagione, prima di ripartire per Procida, il Rais lasciava alla Patrona di Lacco Ameno una parte della paga raccolta durante i mesi di lavoro, fatto di levate alle cinque del mattino per tornare a terra al tramonto. Nel sentimento della testimonianza tragica che la vita è una lotta, va costruita, combattuta, celebrata con l’impegno per modificare le cose del mondo e far nascere l’aurora dal fondo del mare se il fine è la sopravvivenza.

 

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