La grande avventura dell'acqua di Napoli

acquedotto Ischia bucato

DI ISABELLA MARINO

Potente, gagliardo, fulmineo. Alto quaranta metri. Trasparente contro il cielo azzurro di una giornata tersa d’autunno. Applausi scroscianti accolsero lo zampillo di acqua pura, in quella domenica 9 novembre 1958, mentre s’innalzava sul piazzale gremito di popolo ai piedi del Castello Aragonese. E il mare tutt’intorno era pieno di imbarcazioni pavesate a festa, che salutarono con le loro sirene quella novità che già si poteva definire storica. Dopo anni di attesa, l’acquedotto sottomarino era terminato e portava in dote a Ischia l’acqua che avrebbe messo fine alla sua sete. Se ne giovava già Procida da un paio d’anni e ora era la volta dell’isola più lontana dalla terraferma, punto di arrivo di un progetto che aveva cominciato a prendere forma all’inizio di quel decennio di grandi opere e di profondi cambiamenti.

A suggellare l’eccezionalità di quella giornata fu la nutrita e inusuale presenza di ospiti giunti apposta da Napoli e da Roma per l’inaugurazione. Due ministri, politici nazionali e regionali, esponenti delle istituzioni e del mondo accademico insieme ai tanti tecnici che avevano seguito l’opera nella sua complessa evoluzione. Un lungo elenco, riportato nelle cronache dei giornali del lunedì, che non mancarono di dare risalto alla notizia. Con l’ampio resoconto del discorso tenuto dal ministro per il Mezzogiorno Giulio Pastore. Fu lui, alle dodici in punto, a premere il pulsante che fece scaturire lo spettacolare zampillo d’acqua sul piazzale Aragonese, mentre suonavano le campane di tutte le chiese dell’isola. E fu sempre lui ad inaugurare nel pomeriggio le fontane di Ischia Porto, Casamicciola, Lacco Ameno e Forio, dalle quali l’acqua di Napoli sgorgava ormai in ogni parte dell’isola. DALLE SORGENTI IN COLLINA ALLE NAVI CISTERNA Due secoli e mezzo prima, nel borgo ai piedi del Castello, gli ischitani avevano festeggiato con lo stesso entusiasmo il completamento dell’acquedotto di Buceto. E a lungo la sorgente baranese era riuscita a soddisfare le esigenze di una parte significativa della popolazione, tra Ischia e Barano. Così come gli abitanti delle altre contrade attingevano con appositi acquedotti dalle sorgenti di acque fredde e potabili presenti, perlopiù, nelle zone collinari dell’interno: Ervaniello e Piesco a Casamicciola, Ciglio nell’omonima frazione alle falde dell’Epomeo, Piellero a Forio, Cava Sia a Panza, Cava dell’Acqua a Succhivo e Nitrodi, a Barano, la più prodiga e apprezzata per le sue proprietà curative, note fin dall’antichità. E, più vicine al mare, l’acqua Mirtina, nell’Arso d’Ischia, e l’acqua del Pisciariello a Lacco Ameno, colpevole di lasciare i denti neri a chi ne faceva uso. Alimentate dalle piogge, la portata di tutte queste fonti tendeva a variare notevolmente nel corso dell’anno, con inevitabili conseguenze sull’approvvigionamento della popolazione. Che, quindi, cercava sfruttare al meglio anche l’acqua piovana, raccogliendola nelle capienti cisterne di cui erano provviste tutte le case. Ma l’acqua era comunque un bene di limitata disponibilità, perciò da utilizzare sempre con parsimonia. E il progressivo aumento demografico con le accresciute esigenze igieniche la resero sempre più insufficiente e preziosa. Finché, nel secolo scorso, le fonti di cui l’isola naturalmente disponeva non ricorrendo all’importazione dalla terraferma con le navi cisterna. Grandi e piccole ne arrivavano ogni giorno, per rifornire di acqua potabile i serbatoi pubblici di ogni zona dell’isola. E anche gli alberghi che stavano sorgendo lungo la costa ischitana, con un ulteriore incremento del fabbisogno idrico. Navi e bettoline ancoravano a pochi metri dalla riva. Con le scialuppe, i marinai portavano a terra le manichette fino agli impianti dei destinatari. In contemporanea, si assisteva ad un curioso movimento di barche al contrario. Chi aveva un natante, lo caricava di damigiane e di altri recipienti utili e andava a rifornirsi alla nave per i bisogni della famiglia. E non era raro che qualcuno scaricasse l’acqua direttamente nella barca, rischiando pure di capovolgersi, come talvolta era accaduto tra l’ilarità degli astanti. UNA “STRANA” IDEA PER DISSETARE LE ISOLE Il sistema di trasporto dell’acqua era abbastanza efficiente e collaudato, ma non ne garantiva l’igiene e la potabilità. E, soprattutto, era già al limite delle sue capacità di soddisfare le esigenze di una comunità sempre più numerosa e di una economia turistica in rapida espansione. Perciò a Ischia si cominciò a ragionare sulle possibili soluzioni al problema idrico, assoluta priorità rispetto ad ogni programma di sviluppo. E tra le varie ipotesi, fu considerato anche l’approvvigionamento dalla terraferma con una condotta sottomarina. L’idea fu lanciata sul giornale “Agire” e suscitò l’interesse di alcuni amministratori dell’epoca, che fecero redigere un progetto di massima. In occasione di una sua vacanza a Ischia nel 1950, ne fu informato l’onorevole Attilio Piccioni, che consigliò di presentarlo al più presto alla Cassa per il Mezzogiorno da poco istituita. Ciò che fu fatto dopo la sua partenza. E il 16 marzo 1951 arrivò a Ischia la notizia del via libera all’opera. Proprio il giorno prima, il Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno aveva deciso la costruzione di una condotta sottomarina per Procida e Ischia. L’opera fu inserita nel grande progetto del nuovo acquedotto campano, uno degli impianti idrici più moderni d’Europa. Definito fin dall’inizio, senza ombra di iperbole, colossale e avveniristico. Infatti, utilizzando l’acqua di sorgenti della Campania e del Molise, doveva servire Napoli e 157 Comuni delle quattro province campane con oltre 3 milioni di abitanti. Per la sua realizzazione, furono mobilitati giorno e notte migliaia di operai e tecnici specializzati e si creò sul territorio un importante indotto industriale. LO STESSO PERCORSO DEI VIAGGIATORI DEL GRAND TOUR Una costola di questo colosso doveva rispondere al fabbisogno d’acqua delle isole. L’impresa era senza precedenti per la lunghezza dei tratti sottomarini, nei quali la posa in opera delle due condotte aveva richiesto soluzioni tecniche fortemente innovative e impegnato mano d’opera specializzata proveniente da ogni parte d’Italia. L’enorme diramazione partita da Napoli, dissetava i comuni flegrei prima di iniziare il suo percorso sottomarino dalla spiaggia di Miliscola, da dove anticamente partivano i viaggiatori del Grand Tour diretti alle isole. Identiche alle tappe del loro viaggio verso Ischia erano anche le tratte del nuovo acquedotto: immerso ad una profondità di diciotto metri lungo tutto il Canale di Procida, riemergeva alla Marina di Sancio Cattolico e da lì proseguiva fino al serbatoio per l’isola di Graziella, dove l’acqua era arrivata già nel 1956; poi, il tratto terrestre fino alla parte inglobata nel nuovo ponte di collegamento tra Procida e Vivara; attraversato pure l’isolotto, l’impianto rientrava in mare fino a Ischia, dove tornava terrestre in corrispondenza dello storico Ponte Aragonese, per raggiungere, a pochi metri, il lato del piazzale dominato dal Castello in cui si alzò il getto inaugurale. “Acqua pura e gradita”, la definì il vescovo d’Ischia nell’iscrizione sulla lapide marmorea scoperta in quella serena mattina di novembre. Davanti allo spettacolo del mare e, sullo sfondo, i monti del Matese, custodi della sorgente del Torano che quell’acqua preziosa genera. Ancora oggi, come settant’anni fa, “per quanti qui nella verde sempre assolata Aenaria vengono per la loro salute”.