L'ultima Curandera

curandera

Viveve nel Piano, una sorta di colmata argillosa e piatta che una volta era coltivata a mele rosse annurche e gialle limoncelle, punteggiata da acquitrini che pullulavano di rane: si trova tra la fossa vulcanica  di Vatoliere e le case di Testaccio, il borgo contadino-marinaro che è poggiato qua e là sulle alture che dominano la baia dei Maronti. Ma le sue origini sono ancora più collinari: Buonopane, ovvero «le parti di sopra», come le chiamavano i Greci che fondarono sull’isola la loro prima colonia del Mediterraneo occidentale.

Sulla mappa dell’isola bisogna cercare questi luoghi sul digradare meridionale del Monte Epomeo, la vetta isolana con i suoi crinali selvaggi. Poco importano, però, i dettagli della toponomastica. Il cuore dell’attenzione è tutto per lei: Sisina Di Costanzo. Ha compiuto 84 anni lo scorso febbraio ma, incontrandola, è fin troppo facile sottrarle una ventina d’anni dal numero anagrafico: è minuta e vivace, forte e peperina. Per me è una leonessa tascabile con un amore infinito per l’umanità e la giustizia sociale. Ha una vitalità magnifica che è contagiosa, perché è semplice, concreta e consapevole. E, soprattutto, femminile. Dal punto di vista antropologico la sua esperienza è esemplare.  Sisina, madre di sette figli, ha imparato dal nonno materno Francesco (che, a sua volta, aveva una mamma francese), a prendersi cura dei malanni degli altri utilizzando i medicamenti che la Natura sa offrire. Una Natura che qui è vulcanicamente meravigliosa e sorprendente.  Sisina è l’ultima curandera di Ischia. E, con l’aiuto fondamentale della professoressa Lella Baldino alla quale è legata da profondo affetto; e di Maria Assunta Calise con Paola Morgera, ha scritto un libretto, un utilissimo vademecum dal titolo «Un’artista in erba, i rimedi naturali di Sisina». Sembra quasi evocare, ma sul versante dell’universo arboreo, il grande libro sulle sorgenti e le acque scritto da Giulio Iasolino nel 1588: «De’ Rimedi Naturali che sono nell’isola di Pithecusa oggi detta Ischia». Quarantadue pagine fitte di consigli e modalità d’uso, riferimenti storici e mitici, edite con il logo del Garden club presieduto da Nunzia Mattera Sena, con il sostegno economico di Pietro Russo, presidente dell’Ascom Confcommercio, e impreziosite dalle amorevoli foto di Miria Di Costanzo, che sono anche a corredo di queste pagine. Proprio una di queste immagini, quella della Borragine, la Borago Officinalis conosciuta nei diversi dialetti locali come Burracce o Borrace, mi attrae in modo irresistibile per la complessità e unicità delle variazioni di colore. Un segno evidente del potenziale curativo della pianta. Dice Sisina, attraverso la trascrizione curata da Lella Baldino: «La Borragine viene usata per il fegato e, in generale, per depurare il corpo. Per essere utilizzati i fiori devono essere prima essiccati. La sera prima dell’uso se ne prende un pizzico e lo si mette a bagno in acqua tiepida, in un bicchiere. La mattina, a digiuno, si beve il contenuto. L’operazione va ripetuta per 15 giorni».  La Borragine fa la sua presenza essenziale anche nella «Minestra Salvagioia», che si prepara con una precisa lista, come in una vera pozione, di erbe diuretiche e digestive, che oggi definiamo detox, alle quali si aggiungono fagioli. La proprietà di erbe, foglie, bacche e soprattutto radici permette a Sisina di  Natura che arriva da molto lontano. Una cultura che si è materializzata nella continua disponibilità verso gli altri. Scrive Lella Baldino: «Il nonno materno Francesco Di Meglio aveva studiato  in Francia, viene a Ischia dove ha dei parenti e conosce la sua futura moglie, che ha solo 15 anni, si innamora e si sposano dopo poco a Buonopane. Questo nonno ha una bellissima biblioteca, è un uomo ricco di cultura che ha girato il mondo, conosce le lingue e traduce, come si usava allora, le lettere che arrivavano dagli emigrati all’estero per le persone che non sapevano né leggere né scrivere, compreso il sindaco dell’epoca. È a lui che Sisina deve la conoscenza delle erbe e del loro utilizzo: il nonno traduceva per lei in dialetto i nomi di quelle erbe che aveva già conosciuto per aver vissuto in altri paesi…».    È cominciata così. Oggi c’è sempre un pentolino colmo di erbette e radici che bolle sul fuoco, a casa di Sisina. Lei, ormai, è una vera enciclopedia vivente di aneddoti, tradizioni, storie belle e commoventi che stupiscono per passione e competenza, e celebrano tutti i viventi; e il verde come patrimonio antico e soprattutto salutare, da tutelare attivamente. Così, il Tasso barbasso è l’ereva marvassa che disintossica il fegato. Che dire, ancora, dell’Euforbia, nota anche come cecaocchi? La si utilizza per «togliere i porri». Ecco come si fa: «Prendere un rametto di Euforbia, spezzarlo e far cadere sul porro una goccia di lattice al mattino (facendo attenzione appunto a non aver contatto con gli occhi perché è urticante); e una alla sera per quattro 0 cinque giorni. Finita la cura, dopo qualche giorno, il porro si stacca da solo». Senza lasciare traccia alcuna sulla pelle. E l’Euforbia è pure ‘u ‘ntutemegghie, parola – forse significa «ti aiuta meglio» - che affonda il suo significato all’alba della latinità che ha civilizzato il monte Epomeo. Qui, con la montagna un po’ sacra a protezione, la grande famiglia di Sisina Di Costanzo coltivava il grano Carusella da cui le manifatture di Lacco Ameno, anch’esse al femminile, ricavavano la paglia, le borse e i cappelli. Artigianato di classe, che veniva esportato. E si produceva anche un’altra varietà di grano. Poi l’orzo, del quale si sono purtroppo smarrite le pratiche. «L’Epomeo – racconta Sisina – a quel tempo era la terra dell’orzo». I ricordi si aprono a ventaglio. Intimi, esaltanti.La narrazione di Sisina è una glorificazione delle essenze, una virtù che ho in qualche modo già celebrato nel mio libro «Mille orti in mezzo al mare».«Nel 1957 c’era la febbre asiatica. Ero incinta e appena entrata nel nono mese. Avevo la febbre fortissima e mio figlio nacque prima, prematuro. Nacque nero, cianotico. Il direttore della Maternità mi disse: “Signora mi dispiace ma questo bimbo deve morire”. Presi il piccolo e lo portai a casa. Chiamai il dottore Biagio Buono che venne a trovarmi e mi disse: “Non c’è niente da fare, purtroppo. Respira, ma...”.  Avevo avvertito anche il parroco. Nella notte, invece di dormire, però mi alzai e andai a prendere l’orzo. Non l’orzo abbrustolito, quello fresco. Lo bollii: ogni litro d’acqua ne deve restare un quarto. Allora presi un po’ di miele, lo mescolai con questo liquido, e preparai quella che si faceva allora per i neonati, la pupatella: con un po’ di garza e, all’interno, una mollica di pane. La legai. Gliela volevo mettere sulla lingua. Ma aveva già la lingua sotto il palato… Allora, piano, piano gli staccai la lingua da sotto il palato. A goccia a goccia cominciai a far cadere in bocca quell’orzo, e il bambino invece di morire, piano, piano cominciò a prenderlo. Gli facevo scorrere sempre una piccola goccia, una dopo l’altra, e così feci per tutta la notte. E, poco alla volta, vedevo

 

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